Quel giorno a Grozny
GROZNY, QUEL GIORNO
di Giorgio Fornoni
(Mediterraneo)
Si chiama Sputnik, come il primo satellite in orbita attorno alla Terra. Ma per i 20mila profughi costretti a trascorrere il duro inverno del Caucaso in questo squallido campo di tende, presso la frontiera tra Cecenia e Inguscetzia, il richiamo ai fasti della tecnologia astronautica sovietica suona quasi come una beffa. La guerra con la nuova Russia di Putin, riesplosa nel settembre scorso, li ha costretti a fuggire ancora una volta dalle proprie case. Molti di loro vengono da Grozny, la città simbolo della resistenza cecena, distrutta da mesi di bombardamenti e battaglie. Completamente abbandonate a se stesse, dimenticate perfino dalle grandi agenzie umanitarie internazionali, oltre 200mila persone hanno abbandonato la piccola regione del Caucaso, il cui sogno indipendentista è stato brutalmente schiacciato dalla macchina da guerra russa. Gli ultimi 1500 fedelissimi di Shamir Basayev sono ancora asserragliati sulle montagne ai confini con il Dagestan e la Georgia, in un ultimo disperato tentativo di resistenza. Ma nel fatale intreccio tra gli interessi economici legati al petrolio del Caspio, le mafie locali, lo scontro etnico e religioso, questa volta ha avuto la meglio la volontà di rivincita dell’Armata Rossa, umiliata nella prima guerra del 1994-96. E le prime vittime, come sempre, sono stati i civili.
“Allah akbar”, Dio è grande, “Putin boia”. L’orgoglio della piccola Cecenia, di fede mussulmana, si esprime anche così, una coraggiosa manifestazione di protesta sulla linea di frontiera dove passano i carri russi. “E’ un genocidio”, dicono delle donne. E’ sempre colpa della politica, la maledetta sporca politica... oggi come ai tempi della prima grande repressione, ad opera di Stalin.”
“Sono i mercenari senza fede”, accusa un vecchio. “Vengono qui, bombardano, violentano, uccidono... sono loro i banditi, non noi”.
VERSO LA CECENIA
Da settembre dell’anno scorso, solo pochissimi stranieri sono riusciti a varcare i confini proibiti della Cecenia.
Il frastuono dell’elicottero militare russo che ci ha imbarcato ci ripete invece che siamo partiti per una missione che sembrava impossibile. Settimane di attese esasperanti, una selva di “niet”. Poi, a sorpresa, il via libera per una “tre giorni” guidata, insieme a pochi altri giornalisti internazionali. E ora stiamo sorvolando il piccolo territorio ribelle, devastato da 6 anni di guerra. Qui, anche i fuochi dei pozzi di gas hanno qualcosa di sinistro. Ed evocano immediatamente una delle ragioni più vere, e mai ufficialmente dichiarate, di questa disputa feroce.
La base militare di Hankalà è l’avamposto di una guerra non dichiarata che ha mobilitato 100mila soldati tra settembre e oggi e il meglio dei corpi speciali russi. Siamo a pochi chilometri dalla gola di Argun, dove si sono asserragliati i guerriglieri superstiti e dove è in corso quella che i russi annunciano come la battaglia finale...
I civili che incontriamo sono rimasti intrappolati presso il fronte, non possono più allontanarsi dal loro villaggio, riconquistato dai russi. E ormai sperano soltanto che la guerra si concluda, in un modo o nell’altro.
La nostra visita inizia dalle retrovie del fronte, dove la guerra sta impantanando nelle mille risorse della guerriglia. “Incontriamo ancora una forte resistenza”, ammette un ufficiale. “Ma contiamo di concludere le operazioni nel giro di poche settimane”.
Ufficialmente, in Cecenia non è in corso una guerra, ma quella che i comandi russi definiscono una “operazione anti-terrorismo”, in risposta agli attentati del settembre scorso nel centro di Mosca. Ma la verità è che i russi questa volta hanno messo in campo i professionisti delle loro migliori unità speciali. Alcuni, sono veterani dell’Afghanistan.
MISSIONE SU GROZNY
Un treno piantato tra la neve e il fango presso la base militare è quanto di meglio offra il servizio logistico locale. E per due notti diventerà il campo base di questo nostro singolare viaggio nella dimenticata guerra cecena. Abbiamo dovuto accettare la stretta custodia dei militari russi, ma la speranza di tutti noi giornalisti è quella di poter entrare in questo modo a Grozny, documentare quanto è accaduto all’alba di un millennio iniziato quaggiù sotto i peggiori auspici.
Poi...
Due mezzi blindati, nella luce livida dell’ultimo giorno in Cecenia. A bordo, gli uomini delle unità speciali russe, la nostra scorta inseparabile. Destinazione, annunciata solo all’ultimo momento, la città di Grozny.
Le poche notizie che filtrano dalla capitale cecena, ancora una volta diventata la città simbolo della resistenza, parlano di una città morta. Ma a un mese dalla conquista di Grozny, i russi stentano ancora ad avere il pieno controllo della capitale, teatro di combattimenti accaniti casa per casa fino al febbraio scorso. Ancora non si parla nemmeno di un possibile rientro dei profughi. E tantomeno di una apertura all’ingresso delle agenzie umanitarie, della Croce Rossa e dei mezzi di informazione.
C’è una tensione palpabile nell’aria mentre il nostro blindato si allontana dal campo e punta sulla capitale, per piste tracciate nella campagna. A tutti gli effetti, questa è ancora zona di guerra e i militari della scorta ne sono ben consapevoli. Ma il blindato diventa presto un mezzo come qualsiasi altro. E il nostro viaggio tra ciò che resta di Grozny un surreale tour da Day After. Una “visita guidata”, scandita dall’incongrua musica rock della radio di bordo, tenuta a tutto volume.
Le prime rovine alla periferia della città annunciano già le dimensioni dell’apocalisse che si è abbattuta sulla orgogliosa capitale cecena, già duramente provata nella prima guerra e oggi colpita a morte. Il nostro singolare mezzo di trasporto deve continuamente compiere ginkane tra i posti di blocco e i crateri delle bombe, costeggiando palazzoni di periferia sgretolati dalle granate e anneriti dagli incendi. Il pericolo dei cecchini appostati è reale. L’ultima imboscata dei guerriglieri ha fatto 20 morti. Vanno ad aggiungersi ad altri 1600 soldati russi, caduti in una guerra non dichiarata ma combattuta con feroce determinazione dalle due parti. E che ha avuto come scenario finale proprio le case di Grozny.
I primi civili, appena intravisti tra le macerie, sono testimoni di un dramma ancora tutto da raccontare, di una storia ancora tutta da scrivere...
UNA CITTA’ CHIUSA E DISTRUTTA
Ci stiamo avvicinando ormai al centro della città, irriconoscibile da chi l’aveva conosciuta durante la breve stagione dell’autonomia politica. Nemmeno la prima guerra cecena era riuscita infatti a distruggerla del tutto...
Eccoci poi davanti al palazzo presidenziale, in quello che una volta era il centro della città e oggi è una distesa di macerie. Ci sono ancora i cecchini nascosti tra queste rovine. Ad ogni sosta, gli uomini del commando che ci accompagna si dispongono a cerchio attorno ai mezzi blindati, le armi pronte. Il giorno dopo la nostra visita sono caduti in una imboscata 20 soldati russi, l’accesso alla città è stato chiuso di nuovo. E nessun altro ha potuto più raccontare l’agonia di questa città devastata.
Uno sparo, improvviso. Solo un colpo di avvertimento tra una pattuglia e l’altra, ci diranno poi, ma anche la conferma che i nervi sono a fior di pelle, che il pieno controllo della zona vantato dai russi è ancora lontano, nonostante che le bombe abbiano addirittura spianato interi quartieri. Ancora di più che a Mostar, Sarajevo o le altre città-martiri della Bosnia. Era dai tempi della seconda guerra mondiale che non si vedevano più, alle porte dell’Europa, immagini come queste...
I primi soldati russi sono entrati il 6 febbraio scorso, dopo mesi di bombardamenti e la sorte di 10mila civili rimasti intrappolati durante l’inverno, chiusi nei rifugi sotterranei e stremati dalla fame, è ancora incerto. Le autorità respingono recisamente le accuse di torture e violazioni dei diritti civili. Ma resta il fatto che Grozny è ancora chiusa agli osservatori internazionali ed è impossibile stabilire quale sia stato il prezzo realmente pagato dalla popolazione.
Ancora vie sconvolte dai crateri delle bombe, ancora rovine. La tragedia di Grozny è avvenuta nel silenzio e nella sostanziale indifferenza del mondo. Come quella dell’intera Cecenia, sacrificata dalla real-politik internazionale sull’altare di un cinico patto di scambio con la vicenda del Kossovo. La non-interferenza dell’Occidente nell’offensiva russa -denunciano con forza i ceceni- è stato il premio al via-libera concesso pochi mesi prima da Eltsin ai raid aerei della Nato contro la Serbia. E le immagini che vediamo documentano in maniera eloquente quali ne sono state le conseguenze.
Arriviamo alla Piazza Minutka, è stata una roccaforte della resistenza, difesa con accanimento fino all’ultimo giorno dagli uomini di Basayev.
Solo poche donne si aggirano oggi come fantasmi tra le rovine, segnate per sempre da altrettante tragedie personali o familiari. Ogni posto di blocco rappresenta ancora una incognita mortale...
Queste donne erano nei campi dell’Inguscezia. Sono venute a cercare notizia di alcuni familiari rimasti in città, raccontano, sfidando il blocco ufficiale al rientro dei profughi. Ma ripartiranno senza averne saputo nulla...
“E’ una tragedia, una grande tragedia per tutto il nostro popolo. Non potete nemmeno immaginare cosa abbiamo passato”. “Forse era meglio morire, come tanti nelle nostre famiglie, e non è ancora finita non sappiamo cosa ne sarà di noi”.
“Ditelo nei vostri paesi, raccontate come vivono i nostri bambini, come si vive qui. Prima le bombe, ora soldati dappertutto, sempre pronti a sparare e a uccidere. Non finirà mai, non finirà più”.
Non ci sono cifre, nè forse mai ci saranno, sulle vittime civili di mesi di assedio. Nè su quelle della rappresaglia tuttora in corso, che ha coinvolto l’intera popolazione maschile e i giovani sospettati di collaborare con il partito armato. “Non so più nulla di mio marito e di mio figlio”, grida un’altra donna.
E’ difficile immaginare che Grozny possa essere di nuovo abitata. Le autorità pensano già di ricostruire altrove il capoluogo di una Cecenia tornata ad essere una provincia della federazione russa. Prima della guerra, Grozny contava mezzo milione di abitanti. Dopo il 1996, tra nuove speranze di rinascita, ne rimanevano 100mila. Sotto le bombe dei mesi scorsi sono sopravvissuti in poche migliaia. La punizione per chi ha osato sfidare l’impero russo questa volta è stata veramente terribile e rischia di cancellare per sempre dalla geografia della Cecenia la sua storica capitale... Lasciamo Grozny in una morsa angosciosa, mentre l’altoparlante di bordo riprende il suo grottesco martellamento rock, a celebrare una sorta di Apocalipse Now in versione russa.