Quechua: gli uomini della Sierra
di Giorgio Fornoni
(Inserto di Presenza Cristiana)
“Gli stranieri si recano a visitare il Perù e in particolar modo la regione andina soprattutto per i miti che si sono venuti a creare intorno ad essa. C’è un fascino, quello di un mondo che innanzitutto inebriò gli Spagnoli allorché invasero la regione”.
Questo non impedì loro di smantellare non solo dei templi, ma un’intera civiltà: sulla Cori-Cancha, una specie di città religiosa dell’Impero incarico nella zona di Cuzco edificarono il convento di Santo Domingo; di Lima, la Ciudad de Los Reyes, fecero il punto centrale della loro espansione in America Latina.
Che cosa siamo venuti a cercare, in Perù?
Le testimonianze delle abilità costruttive degli Inca, i resti delle strade, delle fortezze, e di terrazzi, come quelli in Machu Picchu, a dominare scenari naturali grandiosi, con le gole selvagge, le montagne scoscese, la vegetazione subtropicale, affascinanti in sé e che inducono ad un’altalena di esaltazione e di raccoglimento.
Abbiamo sentito, anche se quasi impalpabile, il sapore del passato del Perù pre-colombiano, ancora sfumato fra realtà e leggenda, tra storia e mitologia.
I racconti dei cronisti visitatori e le invenzioni dei popoli dominatori hanno cancellato o cambiato quasi tutte le verità, e l’attuale popolo delle Ande allo stesso modo e con gli stessi metodi ci racconta la sua storia. Una versione Andina infatti vede nascere Manco Capac e Mama Ocllo, dal centro del lago Titicaca, quali figli del sole per dominare e civilizzare le popolazioni che abitavano in Perù; quando le due divinità giunsero intorno al 1100 d.C. nella valle di Cuzco e vi si fermarono guerreggiando, gli “INCAS” non erano che una delle tante tribù in tutto simili a quelle vicine: comunità indipendenti, più o meno numerose, spesso in guerra tra loro per espansionismo o sopravvivenza. Fu a quel punto che Manco Capac li dominò e li civilizzò, dando origine al periodo INCA ed imponendo loro una struttura imperialista. Poi, nel 1532 , arrivarono gli Spagnoli guidati da Francisco Bizzarro. Tutto questo volevamo conoscere ed ammirare.
Eppure, i giardini di Pisaq scavati fra le montagne soprastanti l’Urubamba e le isole di tortora, intrecci di canne che ospitano, sul lago Titicaca, i discendenti meticci della popolazione Uro, hanno solo fatto da contorno al vero viaggio dentro il presente del Perù, dentro il popolo Quechua, gli uomini della Sierra, i discendenti degli Inca.
Un contatto, il nostro, che sarebbe stato impossibile senza una presentazione, un passaporto: quello fornitoci da Padre Giovanni, missionario bergamasco, amico nostro e, soprattutto, amico dei Quechua, da essi amato e rispettato.
Con Padre Giovanni partiamo per S.Tomas, paesino situato sulla cordigliera andina nel sud-est del Perù.
A metà strada tra Cuzco ed il lago Titicaca, prendendo a sinistra dopo Sicuani, percorrendo alcune centinaia di km. e dopo aver superato tre valichi, di cui uno a 4800 mt. Arriveremo nella terra dei Quechua. Partiamo dunque da Cuzco a mezzo di autobus di linea locale, fino a Sicuani, il tragitto non è molto lungo, solo 5 ore, ma sballottante. Si attraversa l’altra parte della fertile piana Quzquena.
Dopo aver pernottato a Sicuani cittadina posta a 3.200 mt., si parte alle 5 del mattino con una jeep. Il tempo è molto bello anche se la temperatura è al di sotto degli 0°. Dopo due ore ci fermiamo nei pressi di un laghetto andino; il sole fa la sua comparsa e via via che l’altezza aumenta, le forme di vita diventano sempre più scarse. Diminuiscono infatti le possibilità di trovare vegetazione ed insediamenti umani, il respiro si fa affannoso per la ridotta presenza dell’ossigeno nell’atmosfera, aumentando invece le radiazioni solari e le variazioni di temperatura.
L’unica strada per S.Tomas è a tratti un letto di fiume. Dobbiamo percorrere circa 250 km nell’interno e superare tre valichi. Ogni vallata si presenta uguale, molto estesa e coperta di erba secca.
Ma ad interrompere la monotonia dell’altipiano sono gli incontri con i gruppi di Lama. Essi infatti sono gli indiscutibili abitatori della Sierra del cui paesaggio sono elemento caratterizzante.
Questi docili camelidi, sono usati dalla popolazione andina come animali da soma. Vengono allevati per la lana pregiata e la carne e costituiscono per gran parte dei campesinos l’unica risorsa di vita.
Proseguendo il nostro cammino, si scopre un numero impressionante di valli, grandi e piccole, solitamente aride e sterili e tutto appare come una immensa distesa gialla.
Arriviamo finalmente a S.Tomas, paesino di 2.000 abitanti e dai tetti luccicanti poiché anche qui la civiltà occidentale ha portato l’uso delle lamiere ondulate. Sarà la nostra base per le escursioni nei paesi vicini dove i modi di vita sono autentici…genuini.
Qui si ferma ogni mezzo di trasporto e siamo a 3.800 mt di altitudine. Solo sentieri, malamente segnati conducono ai villaggi vicini. Ad attenderci c’è una suora francese, un prete neozelandese ed altri tre missionari, compagni itineranti di Padre Giovanni. L’indomani facendo quattro passi per il paesino si ha la netta sensazione di vedere gente segnata dalla dura vita che deve sopportare.
La disposizione degli edifici nel villaggio segue sempre una logica geometrica che racchiude in uno spazio, spesso spropositamente ampio, la piazza. Su di essa si affacciano l’edificio della guardia civile, la casa del sindaco e la chiesa.
Alcuni campesinos, attendono che venga aperta onde iniziare la loro giornata con la preghiera. E’ un edificio costruito attorno al 1600 dal prete dell’epoca. Infatti si dice fosse molto ricco perché proprietario di una miniera. Anche qui come in ogni altro centro del Perù è arrivato l’influsso spagnolo. L’interno è baroccheggiante. Usciti, incontriamo un corteo funebre. Per tradizione un morto non viene portato in Chiesa ma soltanto deve passare davanti ad essa, affinché si possa ingraziare il favore di Dio.
Seguendo il corteo, ci imbattiamo in tanta gente e in tanti colori e si odono pianti laceranti.
A metà strada tra la Chiesa ed il cimitero, sull’altopiano, si fermano, depositano per terra la bara e Padre Giovanni è con loro, benedice il morto e saluta i parenti.
Solo il trago, estratto di mais mischiato ad alcool puro e offerto a tutti gli intervenuti alla cerimonia, darà un po’ di sollievo.
Le donne con i loro figli sono disposti sulla sinistra, gli uomini sulla destra. Parlano della vita del morto e devono e si ubriacano. E’ in questo stato che cercano di affondar il loro destino. Tutti piangono e quel pianto sfocia in un lamento.
E’ di fronte alla morte, nella rassegnata indifferenza con cui essa viene accolta, che il popolo Quechua rivela la propria indole fatalista. Un fiume di colori accompagna il defunto al cimitero: per qualche motivo il morto non viene deposto nella fossa ed allora Padre Giovanni è dovuto intervenire. Se alla terra appena aperta non si dona qualcosa, in questo caso il morto, rimane offesa e richiederebbe un altro morto; per far sì che questo non avvenga abbisogna di un altro dono, di una benedizione, quella appunto di Padre Giovanni.
Si cammina per l’altopiano incontrando altra gente. L’uomo della Sierra svolge la sua attività in un mondo ostile; nemico: devono, per spostarsi da un luogo abitato ad un altro, attraversare vallate e valiche, a volte i cavalli sono di loro aiuto. Li osserviamo, accanto a Padre Giovanni, li udiamo parlare. Sotto il peso di un carico di legna, o percorrendo lunghe distanze nel sentiero e nella solitudine, solo l’alcool e la coca pare siano un rimedio. La vera evasione dell’indio della Sierra è la coca; è la compagna giornaliera che lo aiuta a sopportare la sua esistenza, liberandolo da stanchezza, fame, sete e freddo. Ogni due o tre ore l’indio sospende il suo lavoro per comporre la chica; prende alcune foglie di coca, ne fa una pallottola che masticherà. L’effetto di questa sostanza trasporterà l’indio nel suo Paradiso che è l’insensibilità alla fatica. Un filo di bava gli colerà dalle labbra, divenute screpolate e bruciate per il vizio che le macera. Le foglie di coca hanno valore di denaro e l’indio a volte le riceve dal suo padrone come parte del salario.
Un cartello dice: “Necessito Peones”, sono richieste fatte dagli Engaciadores, impresari di manodopera, i quali percorrono la Sierra arrivando nei posti più isolati, offrendo contratto di lavoro ed inducendo l’indio, sempre a corto di denaro, anche contro voglia, ad accettare anticipi e a seguirli.
Il peone parte, migra per periodi che possono durare anche fino a due o tre anni e ritornerà alla fine con poco denaro perché il padrone fornendogli coca e dandogli ospitalità si farà grosse trattenute sul salario.
E così, la vita continua sulla Sierra Andina. Ogni occasione è buona per far festa sull’altipiano. Sempre con Padre Giovanni ci imbattiamo in un matrimonio e ci spiega che questi due sposi convivevano già da due anni e avevano un figlio. Alla mia domanda del perché allora della funzione religiosa a distanza di tempo, mi ha risposto che innanzitutto un prete arriva in questi isolati centro solo ogni parecchi mesi, a volte anni e che conta è salvare il concetto di matrimonio, poiché loro già vivevano il matrimonio. Questo della cerimonia non è altro che affermare quanto era già, ed inoltre vuol dire per loro salire un gradino sociale. Ubriacature, danze e musica sono le temporanee evasioni dei campesinos dalla monotonia esasperata della vita sugli altipiani. E’ ormai tardi, le ombre si allungano. Con il tramonto la temperatura scende al di sotto degli 0° e tutto tende a racchiudersi. La festa finisce, fervono i preparativi e la gente se ne torna ai propri villaggi trascinando con loro anche gli sposi, legati dietro ad un cavallo e noi con loro ce ne torniamo a casa e da lontano un ultimo sguardo vede svanire la vita sull’altipiano.
Andiamo a vivere la vita delle piccole comunità. Destinazione Uscamarca, paesino di circa 200 abitanti, situato oltre l’altipiano di S.Tomas. Prima di scendere al paesino, visitiamo altre resti di costruzione di epoca preincaica. Ogni pietra, ogni insediamento, testimoniano di una storia che non è un nebuloso ricordo ma una presenza tutt’ora viva nel paesaggio, nella vita e nel carattere degli abitanti. Qui il viaggio ha ancora il sapore dell’avventura, ogni passo è per noi una scoperta, una nuova meraviglia. Il rispetto e la reverenza che questa gente ha nei confronti del missionario è grande; e noi di conseguenza siamo i benvenuti. Il capo del villaggio ci dà ospitalità e sistemazione in una casetta di adobe.
Fuori ad essiccare sterco di animali che sarà combustibile per l’inverno. Dentro, un giaciglio abbastanza comodo; della paglia in un angolo vicino ad un forno di terra, qualche gelida patata in un altro ed una pietra, una macina, al centro; la terra battuta fa da pavimento; non esiste la corrente elettrica e l’acqua raccolta da pozzi o da lontane piccole sorgenti.
Alcuni bimbi ci guardano curiosi, altro sono intenti alla cura delle pecore. Prima dell’arrivo degli spagnoli, l’unico animale importante era il lama, ma con l’introduzione degli ovini da parte degli europei i popoli della Sierra riscontrarono utile l’allevamento dei nuovi animali, anzi il regime di sussistenza è ora garantito quasi esclusivamente dalla pastorizia.
Infatti ha molta importanza nell’economia di queste genti, in quanto la pecora non ha esigenze di cibo, si accontenta del poco icho, o paglia secca, che cresce su questa avara terra, e fornisce tanta lana, che filata e tessuta, viene usata per fabbricare vestiti e coperte, e carne e latte per integrare gli scarsi prodotti dell’agricoltura.
Dopo che è stata tagliata la lana, viene lavata, in seguito filata (quasi ogni persona che incontri sull’altipiano, fila); al mercato i serrani trovano una varietà di coloranti che serviranno per tingerla. La tessitura avviene ancora con le stesse caratteristiche e con gli stessi metodi usati dalla popolazione preincaica. L’asprezza della natura, il clima, il lavoro, hanno forgiato il carattere degli abitanti, esaltandone quasi per contrasto, la cordialità e l’ospitalità.
E non è raro che curiosando tra le case, si sia invitati ad entrare. Accettare l’ospitalità è anche il modo migliore per vivere esperienze umane oltre che naturalmente vedere le lavorazioni tipiche dei ponchos o coperte fatte con telai a forma di amaca.
Un capo del telaio viene legato ad un albero o ad un punto fermo; e l’altro, tramite una fascia vien passato e legato nel fondo schiena della donna che lavora, c’è anche il telaio semplice, il più complesso è quello usato dagli uomini: quattro bastoni intrecciati bloccano i tiranti, consolidati da una grossa pietra posta avanti al telaio, e da dove partono tutti i fili dell’ordito, per spola un corno di animale. E’ un artigianato semplice, ma autentico.
Situato a 3.400 mt in una conca, Uscamarca gode di particolari ripari dai venti che spirano sull’altipiano e lungo le vallate. Le piante di eucalipto assieme alla spontanea crescita di piante grasse, trovano il loro habitat. Il rio S.Tomas, ricco di acqua, scorre sul fondovalle e Padre Giovanni ci sta mostrando come vorrebbe far rientrare una canalizzazione sulla piana ai bordi del fiume per rendere fertile quella che potrebbe essere buona terra, usata ora come campi di patate e di tuberi ancini, alternate con campi lasciati a riposo dove pascolano magramente pecore e montoni. La stessa terra viene usata ogni otto anni, tanto è il tempo necessario a rinnovarsi e rimossa con questo tipo precolombiano di vanga; è una lama di ferro legata ad un bastone. Dei bimbi, delle persone attingono acqua da pozzi ed altre con otri di terra la spostano per lunghe distanze. Cosa ne faranno, ci si chiede? Veniamo a sapere che è in progetto la costruzione di una nuova casa. Questo è il momento in cui tutto il villaggio partecipa com’unitariamente. La prima fase è costruire i mattoni. Bimbi, uomini, donne pestano la terra, mista a paglia continuamente bagnata; da questa fanghiglia raccolta in quattro assetti di legno, ottengono delle prisme, che essiccate al vento e sole diventeranno mattoni di adobe; tanti ne serviranno per costruire una casetta. Altra fase importante è la raccolta di paglia per la copertura del tetto; prima che sorga il sole, con i cavalli o muli o asini disponibili vanno verso la montagna, a lunghe distanze, e raccolgono quell’erba lunga, secca e puntigliosa che intrecciata sarà riparo per le loro abitazioni.
Rientrano al paesino cantando, stanchi ma finalmente una volta contenti.
La costruzione ha inizio, ma prima che ciò avvenga, animali vengono sacrificati e sepolti entro l’area della casa in costruzione, è un’offerta fatta alla madre terra, affinché assicuri vita lunga e felice a chi vi abiterà, oltrechè essere un modo di chiedere scusa per averla aperta. Finita la costruzione, cosa importante è mettere le croci: chi dice per ringraziare il cielo; chi perché all’interno vive una coppia felicemente sposata, ma l’indole dei Quechua fa supporre che ciò avvenga per cacciare il malocchio e tenere distanti le dicerie dei vicini, forse è superstizione, forse sono antiche credenze, ma la realtà e la norma esigono tale comportamento.
La maggior parte di queste popolazioni è analfabeta e ciò insieme al fatto di parlare in quechua contribuisce al suo isolamento dal resto del paese. Il carattere conservatore dei peones e campesinos oltrechè alla lingua tradizionale, si rivela nel loro attaccamento ai costumi ed ai modi di vita; non parlano dunque lo spagnolo, vestono abiti indi e conservano vive le antiche tradizioni. Le danze satireggianti nei confronti dei conquistadores, consistenti in una specie di passeggiata a passo di danza saltellante, ripetuta sempre uguale, monotona, nostalgica, triste, accompagnata dal suono di sicu o arpe, hanno il pretesto di festeggiare la nuova casa ma sono anche l’occasione per riaffondare il loro essere in ulteriori ubriacature.
E’ buio, sono le sette di sera di agosto, ed i campesinos, anche se stanchi, quando hanno la fortuna di avere con loro un missionario, si raccolgono nella piccola chiesetta per dar vita ad un momento comunitario. L’unica fonte di luce è la fiammella di una nostra lampada a petrolio. Si vedono arrivare uomini coperti dai loro ponchos, e donne con i loro bimbi sulle spalle avvolti nella lliclia, con visi e volti da presepio. I giovani vengono sistemati in mezzo alla chiesetta e gli adulti su assi poggiate su pietre poste lungo le mura laterali; gli uomini sulla destra, le donne sulla sinistra. La funzione inizia con un rosario recitato in lingua tradizionale Quechua; subito dopo una danza ispirata all’agricoltura ed alla madre terra, monotona, fatta da gemiti e battere di bastone, viene imposta dai partecipanti alla cerimonia per rievocare il passato. Il cattolicesimo non ha sconfitto i miti. La mitologia india dunque sopravvive, la sua forza emerge nelle stesse cerimonie religiose, ed è responsabile il fatto che il popolo Quechua ignora i confini tra sacro e profano. Padre Giovanni non sta solo a guardare, si sente in parte responsabile della vita futura di questa gente ed inizia una predica e dice loro: Voi siete un popolo, un vero popolo che dispone di una certa forza; dovere aver fiducia nei vostri mezzi personali, dovete provvedere a lavorare in comune, e fare ponti, e costruire case e fare condutture per l’acqua, la terra di cui disponete è molti ricca se lavorata; fate valere le nostre idee, i vostri diritti: come ad esempio dovreste farvi restituire le proprietà che vi hanno rubato i grossi proprietari terrieri e delimitarne i confini.
Non potete continuare a vivere rubandovi le cose gli uni con gli altri ed a mancarvi di fiducia e rispetto. Dio vuole la vostra libertà, la vostra salvezza, la vostra dignità, l’importante che voi crediate nei vostri mezzi, ne avete molti, state uniti nella lotta.
Poi tutto è silenzio, e si comprende come quel popolo voglia dare credito alla buona novella. Sembra un convegno di alcuni secoli passati e fatto apposta per farci rivivere quei momenti. Ad uno ad uno salutano ringraziando Padre Giovanni, ed uscendo dalla Chiesa in solitudine si disperdono nel buio della notte.
E’ il mattino di domenica, a S.Tomas, centro della comunità campesina della zona di Chumbivilcas, c’è il mercato. I mercati sono un luogo di periodica riunione degli indios, ci sono quelli fissi, un giorno alla settimana e quelli che hanno luogo per qualche ricorrenza speciale che prendono allora il nome di feria. Il mercato conserva tutta la sua forza di attrazione, come luogo di riunione e di scambi, dove gli indios convergono anche da notevoli distanze con i loro prodotti agricoli ed artigianali. Nei mercati, tutto si svolge nel massimo silenzio. Le indie accoccolate per terra davanti alla loro mercanzia, restano immobili, per nulla interessate alla vendita. Il loro viso rimane impenetrabile ed assente, vengono dai loro lontani casolari e sembra impossibile che delle donne affrontino un cammino così lungo per un guadagno di pochi soldi. Finito il mercato, caricata la merce, se ne partono veloci filando, facendo roteare il loro fuso e portando i bambini più piccoli sul dorso. C’è che aspetta il tramonto per tornare alle proprie case.
Con Padre Giovanni facciamo gli ultimi passi sull’altipiano, scambiamo gli ultimi saluti.
E’ molto presto quando, dopo aver salutato tutti quelli della missione di S.Tomas, partiamo alla volta di Puno; cittadina sul lago Titicana, -dovremo però prima pernottare a Sicuani – il tragitto è lunghissimo e sballottante. Un autobus per 50 persone, ne carica più di 100, senza contare le quantità di sacchi di patate caricati sul portabagagli ed all’interno; oltre naturalmente animali di ogni specie. Si sentono infatti cani abbaiare, gatti miagolare, galli e galline cantare, in un sacco di tela si muovono persino porcellini d’India. E gli odori? Parrebbe insopportabile, ma tutte queste sono le carte di cui dispone questa regione, tutto questo è l’altipiano, tutto questo è l’uomo della Sierra.
Rientriamo a Lima. Siamo alla fine del nostro viaggio alla ricerca dell’uomo della Sierra. Visitare le barriadas è d’obbligo, per capire dove si spengono i sogni dei peones e campesinos che qui si sono stabiliti in cerca di fortuna, accecati dal miraggio di una evoluzione tecnologica, dove i sindacati si organizzano, dove si trova assistenza medica e ospedaliera e dove si presume con poco lavoro un facile guadagno.
L’area del progresso resta Lima ma spesso si tratta di illusione, di un trasferimento dalla miseria degli altipiani alla miseria delle bidonvilles dove prosperano malattie e delinquenza.
Gli indios che scendono dai monti ed arrivano alle città si insediano in queste barriadas, sono prigionieri ed assedianti allo stesso tempo; un esercito miserabile di bassi manovali che l’industria non può occupare e che la città non può integrare.
Un conforto lo trova aggrappandosi al missionario. Per l’indio c’è poca speranza e quella poca è riposta nel suo Presidente Alan Garcia: il quale tenta di combattere la borghesia, impone gli stati di assedio ed affronta le multinazionali. Alla sua elezione infatti disse: “Mi compromiso es con todos los peruanos”, schierandosi dalla parte del debole.
Si rivolgeva anche ai Quechua, ai loro figli, quei bimbi dagli occhi neri, dolci, attoniti ed implorevoli, espressione di un ambiente e di un’esistenza. Quegli occhi, simbolo di speranza di un mondo migliore, hanno riscattato, per noi, anche per un solo momento, la miseria del vivere delle alture della Sierra.