L'angelo di Kabul

L'angelo di Kabul

Il bimotore della Croce Rossa Internazionale che decolla ogni giorno dalla frontiera di Peshawar, in Pakistan, è ancora oggi l'unico collegamento possibile con Kabul, la capitale dell'Afgha­nistan. Sono passati cinque anni dalla presa del potere dei Tale­bani, gli integralisti sunniti partiti in crociata contro i si­gnori della guerra tribali che si contendevano la supremazia dopo il ritiro dei sovietici. Ma l'aspra regione di deserti e montagne ritagliata tra i contrafforti del Khyber Pass e dell'Hindukush è rimasta una selvaggia terra di frontiera. Interi quartieri di Kabul sono ancora oggi una distesa di rovine infestate dalle mi­ne, l'eredità desolante e terribile di cinque anni di spietata guerra civile. Il regime dei Talebani ha spostato al nord il rom­bo delle artiglierie, ma in compenso è andato stringendo sempre di più il pugno di ferro della repressione e del controllo di po­lizia. Impossibile muoversi liberamente, raccogliere interviste, perfino fotografare.

E’ di questi giorni la notizia dell’arresto di 24 dipendenti di una piccola comunità internazionale della scuola “Shelter Now”. I professori americani, tedeschi e australiani sono ancora in isolamento con l’accusa di “proselitismo cristiano” e rischiano pesanti pene. C’è chi invece sa convivere in modo corretto con i Talebani rispettando le loro leggi.

Sono tornato pochi giorni prima che succedesse questo fatto ed a Kabul mi ero soffermato al centro ortopedico della Croce Rossa che è una sorta di oasi di speranza in mezzo a tanto squallore. Oltre 45mila amputati privi di gambe e di braccia hanno trovato qui una protesi e una nuova ragione per vivere. L'anima del Centro è un infermiere pie­montese che dal 1989 ha fatto della propria missione umanitaria una scelta di vita.....

Alberto Cairo, 48 anni, “l’angelo di Kabul” è lo straniero più conosciuto e amato dell’Afghanistan. Quattro anni fa, la sua opera e la sua dedizione a favore degli handicappati hanno ottenuto il prestigioso riconoscimento internazionale del premio Balzan.

Alberto Cairo, l’ho reincontrato dopo cinque anni e gli chiedo quale è il ruolo della Croce Rossa in Afghanistan.

“La prima cosa che la Croce Rossa internazionale deve garantire è l’imparzialità e la neutralità. Lavoriamo sia nel territorio dei Talebani sia in quello di Massud. Abbiamo quattro centri in territorio Talebano e due centri nel territorio di Massud. L’ultimo sta cominciando a funzionare adesso. I pazienti sono uguali da tutte le parti. Qui da noi, quando la gente mi chiede “ma che cosa è cambiato per te lavorare con i Talebani e lavorare con Massud?” io rispondo “Niente, assolutamente niente, lavoriamo nello stesso modo e i pazienti sono sempre gli stessi. Hanno cambiato il turbante, hanno cambiato la divisa, ma è tutto uguale”.

“Prima ci si occupava soltanto di feriti di guerra, solo di quelli; quindi erano amputati, il 99% erano amputati da mine. Poi, dopo, abbiamo aperto a tutti e venivano talmente tanti handicappati, bambini con la polio, piedi torti: un sacco di bambini con degli handicap. Noi sapevamo perfettamente che potevamo fare qualcosa, ma per questa regola che la croce rossa si occupava solo di feriti di guerra, non si poteva fare niente. Per cui ad un certo punto, discutendone con Ginevra,  abbiamo ottenuto il permesso di aprire a tutti (la battaglia con Ginevra è stata molto facile perché era così evidente…). E ora qualsiasi bambino con qualsiasi handicap motore che viene qua lo aiutiamo, o qualsiasi adulto, non ha importanza, e abbiamo raddoppiato però, abbiamo raddoppiato completamente la nostra attività”.

“Qui abbiamo centocinquanta lavoratori di cui 120 sono loro stessi amputati. Riceviamo una media di trecentocinquanta - quattrocento persone al giorno per una qualche ragione: c’è chi viene per la prima volta, chi viene per una riparazione, chi viene per la fisioterapia… ci sono tante tante ragioni e vi assicuro che certe volte c’è così tanto lavoro che noi stessi siamo confusi e non sappiamo da che parte cominciare”. Mi mostra poi un laboratorio: “Questo è il posto del riciclaggio della plastica: ricicliamo tutta la plastica possibile per ridurre il prezzo delle nostre protesi e per fare tutto sul posto, per dare lavoro alla gente, per cercare di creare posti di lavoro”. Questa officina molto particolare è l'industria più attiva dell'Afghanistan. Si costruiscono 400 protesi al mese, 550 tutori articolari, 1000 paia di stampelle, 90 sedie per invalidi. Ogni oggetto è disegnato su misura per il paziente. Il 70 per cento degli amputati alle gambe è vittima delle mine. Ce ne sono ancora 10 milioni sempre pronte ad esplodere, disseminate attorno a campi coltivati, strade e villaggi.

... e prosegue nell’intervista.

“A volte la gente mi chiede “ma non ti senti afghano dopo tanti anni?” No, non puoi, ti senti italiano fino alla fine: le tue radici sono quelle, non c’è niente da fare, ben venga! Se perdi anche le radici perdi tutto, dico io. Si, hai maggiore conoscenza del Paese, lo apprezzi di più, ti difendi di più, però resti italiano!

Certe volte dobbiamo insegnare non solo l’uso delle protesi ma anche le più elementari norme d’igiene.

Molta gente, soprattutto ragazzini, hanno perso una mano o entrambe le mani a causa delle mine: prima non si poteva fare niente, adesso c’è un sistema che non è molto bello ma funziona molto bene e cioè un cavo che va dietro la spalla e permette di aprire e chiudere a secondo delle necessità quella morsa ad uncino che è stata montata al posto della mano. Non è molto bello ma funziona molto bene ed è molto resistente”.

Allunga la mano e dice: "Questo ragazzo ha già sedici anni, quindi è già molto grande, ed è venuto qui con delle deformità e delle contratture molto molto forti. Abbiamo fatto delle operazioni per riportare la gamba in una posizione accettabile, però ci sono ancora delle contratture molto molto forti. Per cui con questa macchina facciamo uno stretching e stiriamo queste contratture: non è molto bello a vedersi però è molto efficace. Quindi lui se ne sta lì per un paio d’ore non è molto allegro, ma ci deve stare. Ma mi sembra sorridente, si, si, è sorridente, non piange”.

Il fenomeno nuovo, e ancora in parte misterioso, che ha visto cre­scere enormemente l'attività del Centro ortopedico di Kabul è una recrudescenza dei casi di poliomielite, una malattia infantile che si credeva debellata per sempre. Lo stesso Cairo è sorpreso.

Le vaccinazioni non funzionano molto bene. Nonostante gli sforzi è un Paese in guerra e ci sono delle difficoltà perché in molti casi ci sono da passare delle linee di fronte. Ma poi c’è un altro grosso problema: ho visto che certi genitori continuano a sostenere e a credere che la vaccinazione provochi la malattia, per cui sono molto restii… Occorre quindi un lavoro di preparazione, una buona diffusione, spiegare a tutti… un lavoro enorme che richiederà sicuramente anni.

Per quanto riguarda la zona di confine con il Pakistan quello è un luogo in cui, non se ne conosce il motivo, le vaccinazioni non funzionano. Ogni mese arrivano almeno venti bambini colpiti dalla polio, ed il numero non scende, continuiamo a riceverne. Non riusciamo a capire perché funzionano in tutti gli altri luoghi ma non lì; ma probabilmente è per il motivo che ho spiegato prima e cioè la resistenza da parte della popolazione locale presumo, non riesco a giustificare in un altro modo.

Abbiamo cominciato da parecchi anni ad occuparci della riabilitazione sociale degli handicappati: non è facile, però bisogna. Non si può ignorare il problema del reinserimento nella società, è una delle cose più importanti. Qui il 90% dei nostri pazienti, dei nostri amputati è gente giovane, tra i 25 ed i 35 anni, forti, sani, e hanno perso una gamba ma possono fare ancora mille altre cose.

La società afghana non respinge l’handicappato, non lo rigetta, non lo emargina, no! Al contrario certe volte lo iperprotegge, certamente non lo incoraggia a ricominciare a lavorare. Ed è sbagliato: è sbagliato perché l’economia è così disastrata che una bocca in più da sfamare diventa una tragedia. Per cui discutiamo sempre con loro, li invitiamo a ricominciare a lavorare, spieghiamo loro che la vita non è finita… Adesso, dal 1° gennaio di quest’anno la Croce Rossa  ha cominciato ufficialmente un programma di riabilitazione sociale dei pazienti, di tutti gli handicappati, offrendo educazione e quindi scuole, cercando di fare corsi professionali per dare loro un mestiere, un ufficio di collocamento nel senso di cercare di trovare lavoro in qualche modo e soprattutto la cosa di più grande successo è il sistema dei micro – prestiti. Funziona molto bene: è la persona che deve proporre l’attività, poi la si aiuta a cominciare con un prestito senza interesse. E funziona molto bene: abbiamo una restituzione del 80% , direi più alto dei paesi dove i prestiti sono fatti dalle banche.

Mi indica un amputato: “Ho chiesto a questo signore che cosa faceva prima; mi ha detto che ha 37 anni e quattro figli, quindi una famiglia piuttosto grossa. Prima faceva il muratore e difficilmente potrà rifare questo lavoro. Per cui gli ho chiesto di pensare ad un’altra attività e lui mi sta già dicendo: “Certo, vorrei aprire un piccolo negozio”. Aprire un negozio qui è molto facile: bastano 100 dollari e si fa, quindi gli ho detto: “prima pensiamo alla tua gamba, devi camminare; poi, dopo, discutiamo  e vediamo di fare un piccolo progetto insieme per farti lavorare di nuovo”.

Un altro handicappato: “Questo signore è paraplegico da due mesi; lo stiamo rimettendo in posizione verticale.  Beh, camminare è difficile, ma in piedi, qui, li rimettiamo tutti; anche i tetraplegici, con molta più difficoltà naturalmente, però li rimettiamo in piedi, e deve essere così perché permette loro migliore circolazione sanguigna e … sicuramente starà in piedi questo signore, sicuramente …”.

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